Kuala Lumpur su “L’Espresso”

Un reportage di Massimo Morello riguardante la capitale malesiana, reso pubblico il 15 giugno 2009  su www.l’espresso.it e, di seguito, riportato integralmente:

La tigre malese

di Massimo Morello

La capitale Kuala Lumpur vuole diventare la nuova Singapore ed essere il centro mondiale della finanza islamica. Per questo lancia la sua sfida al futuro. Con torri in vetro e acciaio. Shopping centre del lusso planetario. Agevolazioni agli investitori. Locali e arte. E si propone come marchio globale 

jpg_2101856.jpgVedo gente, faccio cose… Vernon Emuang si presenta come ‘multimediator’ e per spiegarlo cita inconsapevolmente Nanni Moretti. Sembra che a Kuala Lumpur facciano tutti così. Si vedono e si fanno vedere alla Sultan Lounge del Mandarin, versione locale del Buddha Bar. Oppure allo skybar del Traders Hotel, attorno alla piscina sul tetto. Si ritrovano dopocena al Lecka-Lecka, sulla centrale Bukit Bintang, per fumare il narghilè. Oppure nella palazzina coloniale del National Press Club, per una birra attorno al biliardo criticando l’internal security act che limita la libertà di stampa. S’incontrano personaggi come Rocky, blogger in perenne contrasto con governo e opposizione. Oppure Marina Mahathir, figlia di Mahathir Mohamad, primo ministro per 22 anni, artefice della rinascita malese, fautore di un ritorno ai ‘valori asiatici’ come antidoto alle libertà occidentali. Lei è un’attivista di molte organizzazioni per i diritti civili. “Se mio padre ascolta qualcuno non sono io. Pensa che sono troppo radicale”, dice.

“Il contrasto dà vita, stimola le idee: dalle diversità nascono le opportunità. Sono l’anima della Malaysia” commenta Vernon. Lui ne è la personificazione. È un cristiano serani, discendente di una famiglia di mercanti portoghesi meticciati con cinesi e indiani. Dello stesso gruppo, il 2 per cento della popolazione, fa parte Tony Fernandes che ha trasformato la Air Asia in una delle maggiori compagnie low cost del pianeta.  Anche per questo, ormai ci si riferisce alla capitale malese con il suo acronimo aeroportuale: KL. Lo stesso spelling, Kei El – che riecheggia quello di Los Angeles, El Ei sottolinea la volontà di definire Kuala Lumpur come la nuova metropoli asiatica, in concorrenza con Singapore, la grande rivale. “Kei El è più rilassata e amichevole di Singapore”, dice Wayne Wong, manager della Brdb, gigante immobiliare malaysiano. Secondo Wayne, Singapore ha avuto successo per un fatto d’immagine. Ma ora l’hanno capito anche loro. L’ultimo progetto della Brdb, The Troika, un complesso di tre torri in vetro e acciaio, è disegnata da Norman Foster. “Le architetture firmate trasformeranno Kei El in un marchio globale”, assicura.  “Siamo più convenienti delle altre piazze asiatiche, il governo mantiene bassa la moneta. In Malesia gli stranieri possono avere la proprietà totale del loro immobile e sono previste agevolazioni per i pensionati”, aggiunge Irene Leow, collega di Wayne. Entrambi cinesi, a beneficio del potenziale investitore occidentale precisano che la percentuale musulmana in Malesia è ‘solo’ del 65 per cento, ancor meno a Kuala Lumpur.

In effetti, sino a metà degli anni ’80 Kuala era una città cinese, popolata dai discendenti di quelli arrivati il secolo prima, assieme a migliaia d’indiani, quando la Malesia era una colonia britannica, per lavorare nelle piantagioni di gomma. I malay, la popolazione autoctona convertita all’Islam dai mercanti arabi, preferivano coltivare i campi di riso. Sotto il governo inglese avevano trovato un equilibrio: i cinesi controllavano l’economia, i malay la politica. Dopo l’indipendenza, nel 1957, le differenze economiche cominciarono a farsi sentire e nel 1969 i malay scatenarono una rivolta etnica. Fu così varata la National Economic Policy (NEP), che garantiva loro un trattamento di favore negli studi e nel lavoro. “Una cosa del genere non potrebbe più accadere. I malay hanno capito l’importanza dei cinesi. E la crisi globale si sta rivelando un’opportunità”, assicura Irene. Il programma del nuovo primo ministro Najib Razak le dà ragione: ha appena annunciato che il governo modificherà la NEP. In cambio ha proposto il New Economic Model, per incrementare il settore dei servizi e stabilire “un’economia basata sulla conoscenza”.

 

jpg_2101859.jpgAnche per Lim Wei-Ling la crisi è un’opportunità. “L’incertezza è positiva, dà energia”, dice questa affascinante signora, protagonista della scena di Kuala. La sua galleria, la Wei-Ling Gallery, si trova in un palazzetto del quartiere indiano. Le opere esposte rappresentano le tendenze dell’arte malese. Ne è esempio la personale di Hamid Hadi, intitolata Timang Timang. “In malay quelle due parole significano ‘prendere al volo’. È lo spirito di Kei El”, spiega Wei-Ling. Lo stesso spirito si coglie al Modern Art Space, sul retro del mercato dell’artigianato. Dove, ancora una volta, le idee nascono dalle diversità. Dal piccolo museo d’arte primitiva del Borneo di Mr. Yiu, cinese che sfida la superstizione malese verso i manufatti tribali, alla scuola di danza di Ravi Dhanker, che sfida la diffidenza islamica verso la sensualità indiana. Nell’aria di Kuala Lumpur l’arte si diffonde per osmosi, senza complessi di contesto. Alcune delle opere più interessanti – pennellate astratte che si richiamano ai pittori cinesi di scuola chan – sono esposte nell’atrio e nelle suite del Ritz Carlton. Sono le chine laccate di Louis Wah, nato a Shanghai, per 22 anni vagabondo tra Hong Kong, Singapore, New York, Londra, e approdato qui.

Ennesimo cambio di scena alla Galeri Petronas, che propone un cartello di esposizioni-spettacoli. Come quella del giovane Shahrul Jamili, con opere di forte impatto che riportano l’osservatore a una dimensione più riflessiva. In netto contrasto con la struttura che lo sovrasta, le Petronas Towers, le torri gemelle di 452 metri che emergono nello skyline di Kuala come una scenografia da Gotham City. Progettate dall’argentino Cesar Pelli e completate nel 1998, sono divenute il simbolo del progresso economico nazionale. Almeno finché hanno detenuto il primato di edifici più alti del mondo, nel 2005.

Il nuovo simbolo, meno evidente ma più carico di significato, si trova 25 chilometri a sud. È Putrajaya, nuova capitale amministrativa. Città modello edificata per divenire il primo centro governativo elettronico, sede di una burocrazia senza archivi cartacei. Centro ipertecnologico e ultraecologico, con il 70 per cento di spazi verdi e d’acqua. Il resto è occupato da edifici in stile arabo-contemporaneo. Il che ha suscitato le critiche delle minoranze. “Può sembrare una città del Golfo Persico”, ammette Nasim, un giovane funzionario, “ma è il prezzo da pagare se vogliamo essere il centro della finanza islamica”.

 

jpg_2101860.jpgIn compenso, gli spazi pubblici di Kuala Lumpur seguono il modello di Singapore o ancor più di Tokyo: i monumenti architettonici sono spesso rappresentati dai grandi alberghi o dai centri commerciali. Dove si realizza il vero melting pot. L’ultima di queste opere è il Pavilion, shopping centre dalle bianche geometrie che compongono un canyon di vetrine del lusso planetario popolato da matrone cinesi in abiti di seta, donne indiane in sari, malay o arabe coperte dal hijab o dal burka, a caccia dell’ultimo modello di Prada o Gucci. Altro punto d’aggregazione etnica è il Feast Village, un villaggio composto da 13 ristoranti di diverse cucine creato dal designer giapponese Yuhkuchi Kawai all’interno dell’hotel Marriot. Il bar, costruito con 9.999 bottiglie, è vicino al ristorante arabo, dove non servono alcolici. “Così si può cenare bevendo lo stesso un buon vino”, dice con complicità Segar, responsabile dell’accoglienza.

In tutto questo Kuala Lumpur riscopre l’eredità coloniale. Appare così, almeno, al Carcosa Seri Negara, che era la residenza del governatore britannico. È stata trasformata in un hotel di sole suite, mantenendo lo spirito del tempo in cui ospitava Somerset Maugham. Come allora, ci si vede gente. Quella che conta e non ama farsi vedere.